«Per battere la crisi non bisogna produrre di più, ma meno e meglio, riscoprendo la cultura delle mani»: è la filosofia di Giovanni Bonotto, fornitore di tessuti per i grandi marchi della moda.
Nella saletta riunioni invasa da opere d’arte, una di essa rivela: «L’arte è sempre dall’altra par- te». Non c’è titolo migliore per raccontare la storia di Giovanni Bonotto che, con il fratello Lorenzo, papà Luigi e mamma Nicla guida l’omonima azienda familiare, fornitrice di tessuti per i più grandi marchi della moda, da Chanel ad Armani, da Moncler a Dior...
Siamo a Molvena, in provincia di Vicenza, nel cuore di quella parte del Nord-est che ha conquistato il mondo con la creatività: in via dell’Artigianato, una piccola strada di campagna, si incontrano in rapida successione marchi come Diesel, Dainese e, appunto, Bonotto.
Che si dovesse andare da un’altra parte, per non restare schiacciati dal mercato globale e perdere la sfida con i cinesi, Giovanni l’ha intuito fin da ragazzo: «Papà mi portava ai congressi di Confindustria», racconta l’imprenditore 46enne, il cui look evoca personaggi come Neil Young o Vinicio Capossela, più che manager o padroni. «Facevano discorsi incomprensibili, il loro unico problema era di investire in tecnologia per abbassare il costo orario manifatturiero, cioè velocizzare la produzione, abbattendo il numero di addetti. Già allora mio papà veniva guardato con diffidenza per la sua frequentazione con gli artisti, che spesso invitava a creare nella nostra fabbrica. Quanto a me, "te magnarè a fabrica de to papà", era il commento che mi rivolgevano, con ironia sprezzante. Molti di loro, oggi, hanno fallito...», chiosa Giovanni. La sua fabbrica, invece, va a gonfie vele: 30 milioni di euro di fatturato, che quest’anno sarà in crescita, nonostante la crisi, e 200 maestri artigiani (guai a chiamarli operai: «Sono il nostro patrimonio»).
Da che parte hanno guardato Giovanni e famiglia per vincere la sfida? Dalla parte opposta rispetto a quella battuta dagli industriali che pontificavano in Confindustria: «Abbiamo perso la sfida del costo manifatturiero, come pure quella dell’investimento tecnologico: in ciò i cinesi non hanno rivali. Non ci resta che una possibilità: che i nuovi ricchi del mondo diventino clienti di ciò che noi italiani possiamo offrirgli in via esclusiva, la nostra cultura. Non solo quella dei musei, ma anche quella del nostro stile di vita, del made in Italy. Il che significa che ogni prodotto, ogni tessuto che esce di qui dev’essere realizzato a regola d’arte, un piccolo capolavoro, inimitabile, intriso di storia, vita, identità. Non facciamo fotocopie, creiamo opere d’arte».
Affinché il concetto fosse chiaro, decine di opere di grandi artisti contemporanei – la Fondazione Bonotto ne possiede 12 mila, acquistate o realizzate proprio in fabbrica – sono state affisse fra telai e muletti. «Gli artigiani erano scioccati. “Quanto valgono?”, chiedevano . “Fra i 50 e i 70 mila euro”, rispondevo. “E se le roviniamo?”, insistevano. Allora spiegavo che valeva la pena correre il rischio, perché è essenziale che siano consapevoli che non lavorano in una catena di montaggio, che devono lasciarsi ispirare».
L’invenzione della “fabbrica lenta” è una diretta conseguenza di questa filosofia, che è valsa a Giovanni Bonotto il Premio Masi, un riconoscimento prestigioso riservato a chi sa rinnovare la cultura d’impresa. «Il futuro non sta nel produrre più in fretta al minor costo, ma tutto al contrario, nel produrre meno e meglio, investendo il tempo necessario, perché la qualità è frutto della dedizione». Per raggiungere l’obiettivo «è necessario riappropriarsi di una cultura che privilegia le mani, quella sapienza artigianale che ha segnato i momenti più luminosi della nostra storia: la bottega Rinascimentale e il Dopoguerra. Ripeto a me stesso e ai miei artigiani: ricordiamoci che siamo figli di Leonardo!».
E per permettere alle mani di esprimersi, Bonotto ha acquistato dieci vecchi telai del 1956 in Giappone, li ha restaurati e ha riassemblato, con i suoi dipendenti, l’atteggiamento manifatturiero necessario a usarli.
Un balzo nella storia, nel “come si faceva una volta”, per proiettarsi da protagonisti nel futuro. Una trama tessuta quattro generazioni fa, col bisnonno Luigi che, nel 1913, mise in piedi una bottega di cappelli; proseguita con il nonno Giovanni che negli anni ’40 la trasformò in fabbrica di borse di pelle; sviluppata da papà Luigi, che andò a scuola dai Marzotto per imparare la tecnica della tessitura; e che, oggi, sfida il mercato globale in nome dell’arte: «Ho imparato dagli artisti a fare l’imprenditore», conclude Giovanni.